Quando un messaggio proviene direttamente da un marchio, nasce già sotto sospetto — e non sono io a dirlo. Le parole che simboleggiano un cambiamento di mentalità nella logica pubblicitaria sono state pronunciate da Fernando Fernandez nella sua prima intervista come CEO di Unilever. Nella conversazione con la giornalista delIl Tempo, l'esecutivo ha annunciato una nuova strategia che è oggetto di dibattito tra marchi, agenzie e professionisti del mercato: sotto la guida di Fernandez, la multinazionale di beni di consumo ridurrà gli investimenti nella pubblicità creata dal marchio e aumenterà di 20 volte il budget destinato agli influencer.
L'argomento ha suscitato immediata risonanza nel mercato globale perché non solo rappresenta una trasformazione gigantesca nel modo di dare visibilità a un marchio, ma si tratta di una risposta al cambiamento nel comportamento del consumatore. Se sono scettici riguardo alla pubblicità tradizionale, a che serve continuare a investire enormi somme di denaro in campagne che il pubblico ha già imparato a ignorare?
Capisco che, se le persone non si fidano più tanto dei marchi per prendere le loro decisioni di acquisto, è evidente la necessità di stabilire questo legame in un altro modo. Non a caso, il CEO di Unilever ha chiamato la nuova strategia "social-first", dando priorità ai canali social e alle voci umane come principale interfaccia con il pubblico.
Questo non significa, naturalmente, che marchi di questa portata come Unilever stiano scoprendo ora il potere del marketing di influenza. Sarebbe completamente ingenuo e sbagliato analizzare la notizia da questa prospettiva. La questione, in realtà, riguarda la scala. Invece di concentrare i fondi su pochi mezzi di grande notorietà o su una dozzina di portavoce famosi, c'è un movimento che mira a essere presenti in spazi diversi, dialogando con consumatori vari.
Secondo la mia valutazione, tale cambiamento riguarda la consapevolezza che quella mega celebrità con cachet esorbitante non sia realmente una "voce universale". Cioè, non costruisce connessioni autentiche con nicchie diverse, né rappresenta il consumatore medio. Già un influencer riesce a dialogare con pubblici specifici perché coltiva una relazione stretta con i suoi follower, conosce il suo pubblico e parla con legittimità, contesto ed empatia. È esattamente questo tipo di connessione che Unilever sta cercando affermando di voler avere almeno un influencer in ogni comune — e fino a 100 in alcuni. Si tratta di attivare voci locali, micro leader di comunità, che parlano la lingua di ogni pubblico regionale. Una strategia impossibile da essere eseguita con stelle globali, ma completamente fattibile e scalabile con i creator. E questa è ancora più vera per quanto riguarda i micro e nano creatori.
Chi mi conosce sa che insisto sempre su questo punto: la strategia dei marchi deve valorizzare questo profilo. E questo per il semplice fatto che i micro e nano creator dimostrano di formare comunità molto più coinvolte e con un rapporto di fiducia stretto. Sì, quella fiducia che il CEO della Unilever vuole recuperare.
Una prova di ciò si trova nei risultati di una recente ricerca di BrandLovers: una campagna da 1 milione di reais distribuita tra micro creator ha ottenuto un costo medio per visualizzazione di 0,11 reais (9,1 milioni di visualizzazioni), mentre la stessa somma con macro creator ha prodotto 0,31 reais per visualizzazione (3,2 milioni di visualizzazioni). Cioè, la portata per ogni euro investito è stata del 65% maggiore utilizzando i micros.
Ignorare questi dati che mostrano la massimizzazione della portata di una campagna senza l'aumento del budget può essere spiegato solo da un attaccamento al modello vecchio — attaccamento che si manifesta anche in una certa resistenza all'uso della tecnologia.
So che ci sono diversi casi di successo di marchi che hanno incorporato intelligenza artificiale e intelligenza dei dati nella loro strategia di marketing. Tuttavia, osso dire che la stragrande maggioranza soffre ancora di amatorismo operativo travestito da tradizione, il che rappresenta un problema considerando che il marketing di influenza ben fatto è quello che va oltre la moltiplicazione degli influencer. Prima di tutto, cerca di moltiplicare l'intelligenza. I vecchi metodi di selezione manuale e di scommettere su celebrità isolate mostrano già chiari segni di esaurimento, con enormi inefficienze, quindi il futuro appartiene a chi combina dati, tecnologia e creatività umana per trasformare i creatori in un media altamente efficace.
Unilever sta segnalando al mercato che il gioco è cambiato. Tuttavia, la grande domanda che rimane è: quante marche sapranno fare questo movimento in modo strategico? L'espansione degli investimenti nei creatori ha senso solo se accompagnata da efficienza operativa, prevedibilità e misurazione in tempo reale. Senza questo, stiamo solo gonfiando un mercato con denaro mal distribuito.
Scalare il marketing di influenza senza tecnologia è come cercare di acquistare pubblicità programmatica al telefono: impossibile da sostenere. Solo con piattaforme che automatizzano la selezione, l'attivazione e la misurazione — come facciamo da anni nella pubblicità digitale — riusciamo a trasformare l'influenza in un canale scalabile, efficiente e con ROI misurabile.
Abbiamo bisogno di capire una volta per tutte che il grande vantaggio competitivo non risiede in chi spende di più con la propria strategia di marketing. Invece, il risultato di rilievo deriva dalla capacità di un marchio di utilizzare la tecnologia per garantire che ogni euro investito in influenza si traduca in un vero impatto. Ciò richiede un nuovo modo di pensare: uno che dia priorità ai dati, all'autenticità e alle strategie intelligenti.